Quante volte, magari da ragazzi, progettando il nostro futuro accanto alla fidanzata dei sogni, abbiamo immaginato di vivere “due cuori e una capanna”, trascorrendo giornate serene coccolando e lasciandoci coccolare dalla persona amata?
Poi però, passata la fase dell’infatuazione, quando piano piano la passione iniziava a scemare e la routine prendeva il sopravvento, ci siamo resi conto che di soli sentimenti non si campa e che oltre a quelli bisogna anche preoccuparsi di sbarcare il lunario. È stato probabilmente allora che, a malincuore, abbiamo cominciato a pensare che, forse, era meglio sistemarsi insieme a un “buon partito”, con un lavoro fisso e una famiglia benestante alle spalle, mettendo da parte il romanticismo.
Nel Calcio, quello di oggi, definito anche “Calcio business” o “Calcio moderno” da chi tenta in tal modo di attribuirgli valenze positive, non è diverso. Checché ne dicano i più qualificati “addetti ai lavori”, molti dei quali animati da interessi personali che nulla hanno a che vedere con il genuino spirito sportivo, coniugare le legittime aspettative dei tifosi con le esigenze di bilancio è impresa irrealizzabile.
La nostra Inter non fa eccezione e neanche a farlo apposta a pagarne le conseguenze è l’anello più debole (ancorché importante) della catena: il pubblico.
Chi vi scrive aveva già captato segnali preoccupanti alla vigilia di una stagione che per i colori neroazzurri si sarebbe conclusa trionfalmente con la storica conquista del Triplete, ancora oggi sogno proibito delle rivali storiche. Ricordate quella SuperCoppa Italiana giocata a diecimila chilometri di distanza per onorare l’impegno con i nuovi ricchi cinesi, che cominciavano a fiutare l’affare del grande Calcio? E ricordate quel ritiro estivo nella canicola statunitense, inframezzato da amichevoli che nulla avevano da invidiare alle sfide decisive di Champions League? Una preparazione fisica sommaria, una “sfilata” di calciatori trasformati in divi di Hollywood, a beneficio delle manie di grandezza degli americani, sempre convinti che basti una manciata di dollari per comprarsi una tradizione che non hanno e che non avranno mai.
Questo è successo dieci anni fa. Ma oggi? Com’è la situazione?
Oggi la nostra storia rischia di essere calpestata!
Sono Storia due Campionati Mondiali di calcio? Sono Storia quattro Finali di Coppa dei Campioni?
Sono Storia centinaia di partite disputate da Inter e Milan, uniche due squadre della stessa città a essersi laureate Campioni d’Europa?
La risposta è no. Non sono semplicemente Storia. Si tratta di Leggenda! Una Leggenda chiamata San Siro, successivamente intitolata al più forte calciatore italiano di tutti i tempi Giuseppe Meazza, e infine ribattezzata “La Scala del Calcio”, a indicare senza tema di smentita il prestigio che il nostro stadio trasuda da ogni singolo pezzetto di cemento da ormai 93 anni.
Tutti noi abbiamo salito le scale, le rampe e le torri che dal piazzale (profumato di bandiere e panini imbottiti) conducono alle Tribune, ai Distinti e ai Popolari. A me è successo la prima volta a nove anni, ma l’età non è importante. Ciò che conta è l’emozione indescrivibile e inarrestabile che ci pervade quando davanti ai nostri occhi si apre il campo di gioco. In quel momento, anche se non li abbiamo mai visti di persona, la presenza di Frossi, Lorenzi, Mazzola, Picchi, Beccalossi, Bergomi, Matthäus e di tutti gli altri Campioni che quel prato hanno avuto l’onore di calcarlo la percepiamo chiaramente nel più profondo del cuore.
Vogliono portarcelo via. Vogliono dismetterlo. E ancora non si accontentano… Voglio demolirlo come un ferro vecchio ormai inutile, infischiandosene perfino della Uefa (tutto fuorché un esempio di romanticismo), anch’essa costretta a riconoscerne la perfezione attribuendogli le “cinque stelle plus” simbolo dell’eccellenza.
E tutto questo per cosa? Per sostituirlo con un “teatrino” da poche decine di migliaia di posti, uguale a tanti altri e identificato con chissà quale nome… Non voglio nemmeno pensarci. Un anonimo casermone grondante mediocrità, ma in compenso attrezzato con negozi (anzi “official store”), cinema, ristoranti… Eh, già, perché a Milano non ce ne sono, vero?
Fermiamoli prima che sia troppo tardi!
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