Ribot e il menalatte

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Se Armando Picchi è stato il Capitano di una squadra, la Grande Inter, il suo compagno Giacinto Facchetti, che di quella memorabile formazione faceva anch’egli parte, è stato il Capitano di una storia.

La sua avventura nel Calcio professionistico ce la racconta Andrea Maietti in un libro dal titolo inconsueto per la carriera di un giocatore: “Ribot e il menalatte” (edizioni Limina 2005). Ribot è stato forse il cavallo da corsa più famoso di tutti i tempi; impossibile non conoscerlo anche per chi “datti all’ippica” è solo una presa in giro. Facchetti era così: un purosangue. Il menalatte, nella campagna bergamasca dove il nostro eroe è nato e cresciuto, era colui che tutte le mattine trasportava a bordo di un carro i bidoni freschi di mungitura dalle stalle alla cascina, e per evitare che si rovesciassero doveva mantenere un’andatura lenta e costante, anche se ciò significava tirare un po’ troppo le briglie. Helenio Herrera era così: la sua tattica era principalmente difensiva e non poteva permettere che il suo terzino più tecnicamente dotato si lanciasse in avanti memore del suo passato da ala. Cipelletti, poi ridotto a “Cipe”, come proprio il Mago una volta lo aveva chiamato storpiandogli il cognome, ci provava a tenere a freno le sue folate offensive, ma il richiamo della metà campo avversaria era troppo forte. Così, ogni tanto, ecco che Ribot dava uno strattone, e prima che il menalatte potesse riprendere il controllo del carro il suo cavallo di razza era già lontano. Fortunatamente per Herrera, però, quell’Inter non trasportava bidoni di latte e a finire a gambe all’aria quando Facchetti si sganciava in attacco erano le difese avversarie. Quanti cross telecomandati sono partiti dal suo piede sinistro? E quanti palloni hanno terminato la loro corsa alle spalle del portiere? Tanti. 75 per l’esattezza, che ne fanno tutt’ora il più prolifico difensore nella storia del Calcio italiano.

Piedi buoni e potenza sono in tanti ad averli tra chi calca i campi della Serie A ai massimi livelli, ma c’è un’altra caratteristica che l’Autore ci ricorda frequentemente nella sua opera: la correttezza, l’estrema lealtà. Spesso i difensori si arrangiano come possono, la marcatura a volte assomiglia più a un incontro di lotta libera che di Calcio, e se poi Madre Natura ti ha dotato di un fisico da corazziere è tutto più facile. Poi può capitare che nonostante tutte le attenzioni, lecite e non, l’attaccante riesca ad andare via, e allora come ultime opzioni restano sempre la trattenuta per la maglia o lo sgambetto da dietro. Per male che vada ci scappa un’espulsione. Facchetti in 18 stagioni ne ha rimediata una sola, per proteste. Per uscire vincitore non aveva bisogno di infrangere le regole. Non lo ha mai fatto, né sul campo né dietro la scrivania da Presidente, ruolo cedutogli dal suo amico, prima di tutto, Massimo Moratti che nei momenti di difficoltà sapeva di potersi confidare con lui, ricevendo sempre una parola di conforto, uno sguardo buono, un’iniezione di ottimismo per il futuro. Il numero 3 della Grande Inter, la cui maglia è stata definitivamente ritirata in segno di rispetto, è morto il 4 Settembre 2006, dieci mesi dopo l’uscita del libro. In queste pagine, forse per delicatezza, non si fa cenno alla malattia grave che lo stava portando via. E allora ve lo diciamo noi: non si è mai arreso neanche a quella. Ha giocato la sua partita fino all’ultimo, sempre lealmente. E quando se n’è andato sulla maglia nerazzurra, i colori del suo destino, brillavano lo scudetto e la coccarda tricolore.

 

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