Panem et Circensens – Di Marco Murri

Calcio In Primo Piano

Brutto periodo per l’Umanità, costretta a chiudersi a riccio per cercare di sconfiggere un nuovo e rognoso virus, ancor più brutto per tutti coloro che, fortunatamente non malati causa Covid 19, sono portatori sani ma più che sintomatici di un’altra patologia: il tifo.

Chiaramente non si tratta della brutta malattia che meno di un secolo fa sterminò molte persone, compresa la compianta Anna Frank, ma solo dell’omonima e benigna passione sportiva verso una squadra di Calcio, che comporta scriteriate reazioni e picchi emozionali che accompagnano ogni soggetto che ne è colpito fino alla fine dei suoi giorni.

Da “oggi”, infatti, è prevista la cancellazione di ogni partita in calendario e la sospensione fino a data da destinarsi di tutte le competizioni sportive (in questo caso calcistiche) in corso.

Comprensibile e doveroso, dato il contagio avvenuto anche all’interno del microcosmo privilegiato degli atleti professionisti, ma che fino a qualche giorno fa sembrava poter essere scongiurato, dando l’opportunità a tutti noi, ormai divenuti animali da salotto, di distrarci un paio d’ore staccando dalla drammatica realtà quotidiana: del resto i calciatori, lo si è sempre pensato, altro non sono che l’evoluzione dei gladiatori o degli acrobati e i domatori dell’antica Roma, coloro cui è demandato il compito di alleggerire e distrarre il popolo, tanto da fargli digerire ogni tipo di catastrofe o piccolo fardello diario.

E allora viene da ripercorrere con la mente alcune partite simbolo di questa teoria, il manifesto vivente di questo oblio temporaneo, o addirittura la versione oftalmica di un anestetico da somministrare per rendere possibile un intervento vitale per estirpare un brutto male che altrimenti sarebbe avanzato ancora, indisturbato.

Era il 22 giugno del 1974 quando, al Volksparkstadion di Amburgo andò in scena il derby delle due Germanie, Est contro Ovest: qualche malfidato sosteneva che, al momento del sorteggio, le palline da estrarre per formulare i gironi, fossero state artefatte proprio per farla saltar fuori, quella partita. Non lo sapremo mai, ma non è certo da escludere: all’epoca, infatti, a Est del muro iniziavano i primi moti insurrezionali di cittadini esasperati da un regime tetro e invasivo, arretrato e orgoglioso; per contro a Ovest si assisteva alla crescita del boom economico, al continuo proliferare di luci, auto, dischi e caffè. Come se non bastasse la Germania Ovest dominava nel Calcio europeo con compagini della caratura di Bayern e Borussia Mönchengladbach, con Campioni in bella mostra come Beckenbauer, Gerd Müller, Netzer, Uwe Seeler e Bonhof. Ad Est si puntava sull’Atletica leggera, con discussi metodi poi venuti alla luce, ma nel Calcio mai era arrivata una gioia così da rendere il popolo comunista della DDR orgoglioso di essere tale.

Ma ecco che il 22 giugno accade l’imponderabile: Sparwasser si incunea in area di rigore e con un pallonetto, o tocco sotto per dirlo da moderni, scavalca il baluardo Sepp Maier, dando la vittoria della partita e del Girone ai tedeschi poveri: l’intento della Stasi era riuscito, almeno per un po’ a destra del muro non si sarebbe pensato di passare a sinistra, restando così in mano alla… Sinistra. Ah, per la cronaca il Mondiale lo vinceranno i fratelli dell’Ovest, e, se non bastasse, quindici anni dopo anche Sparwasser, però, scappò, a dimostrazione che gli effetti di un’anestesia poi finiscono.

Quattro anni più tardi, con l’aggiunta di tre giorni, il 25 giugno del 1978 si gioca al Monumentàl di Buenos Aires la finale della Coppa del Mondo organizzata da un Paese che ha molto da nascondere in quanto a malefatte: quale maniera più efficace che un Mondiale per distogliere l’attenzione?

Questo deve aver pensato il baffuto Generale Jorge Videla, pur poco informato dell’arte pallonara, e ne aveva ben donde.

Mentre molti giovani dissidenti sparivano letteralmente dalle strade della città, gli argentini che non si interessavano di politica si distraevano coi gol di Mario Kempes, con le splendide giocate dell’altro caudillo, Daniel Passarella, coi dribbling del loco Houseman e le sgroppate del conejo Tarantini. Già, Tarantini… A quel tempo ha il papà poliziotto e sette fratelli, o meglio aveva; due hanno lasciato il mondo senza neanche aver compiuto due anni, e un terzo se n’è andato a dodici dopo un intervento per correggere le orecchie a sventola: il ragazzo, però, ha la tempra dell’uomo vero e del Campione, e reagisce anche all’ennesimo Ko che la vita gli pone di fronte: suo papà è morto, ha avuto un infarto, troppo forte il dolore per la morte del figlio.
Allora Alberto chiede i soldi al Presidente del Boca per le esequie da affrontare e si sente rispondere picche… Se ne andrà al River. Nel frattempo, però, ha da vincere un Mondiale per la sua Nazione, la Nazione governata da un uomo che disprezza con tutto se stesso. E allora che fa? Dopo il trionfo di quel famigerato 25 di giugno, quando Videla sta per entrare negli spogliatoi a congratularsi coi suoi, dice al Capitano Passarella: “Scommettiamo che prima di stringergli la mano a quel figlio di puttana me la strofino ben bene fra i coglioni?”.

Detto, fatto…

Ed allora se al Caudillo quella partita servì per occultare le sue malefatte, ad Alberto servì per alleviare, almeno per un giorno, le sue tante sofferenze di uomo vero.

Arriviamo al 1985, un giorno di fine maggio: si gioca la Finale della Coppa dei Campioni fra la Juventus e il Liverpool: lo stadio designato dall’UEFA è l’Heysel di Bruxelles. Strano, a vederlo è fatiscente, quasi obsoleto. Dicono che sarà l’ultimo evento importante che ospiterà. Già.

Gli organizzatori hanno anche diviso un settore, quello Z, fra le due tifoserie rivali: peccato che a dividerle ci sia soltanto una transenna di filo metallico e niente più. Inoltre, i tifosi inglesi sono ebbri d’alcool e furia animale, come da anni ormai è in voga nelle tifoserie organizzate inglesi: li chiamano Hooligans.

La Juventus si sta preparando negli spogliatoi, quando iniziano a trapelare le prime indiscrezioni: si parla di incidenti, di feriti, ma questo non destabilizza i giocatori fin quando non escono per saggiare le condizioni del terreno: si rendono conto che alcuni tifosi, invece di chiedere loro un autografo o incoraggiarli per l’imminente partita, scappano: chiedono rifugio negli spogliatoi, vogliono scappare.

È successo che l’orda barbara degli Hooligans li ha letteralmente travolti, scavalcando la recinzione e costringendoli a un fuggi fuggi che li ha schiacciati contro il muro opposto al settore occupato dai barbari inglesi. Ne muoiono tanti, chi gettandosi nel vuoto, chi schiacciato da altri corpi.

Ora lo sanno, Platini, Boniek, Scirea e compagni: non vogliono più giocare, lo dicono.

Ma Boniperti entra negli spogliatoi e dice che se non giocheranno la situazione sarà ben più grave.

E allora la giocano, quella partita, facendo quello che meglio sanno fare per salvare qualche vita, per dar ristoro a chi era lì e non sapeva fino in fondo dell’inferno in cui si era cacciato. Per rendere l’ultimo saluto a chi era andato a vederli, per cercare di buttare fuori tutta quella frustrazione per non aver potuto fare di più.

Platini segnerà ed esulterà, con un sorriso strano, amaro, forzato, una smorfia di dolore come quando si ammazza chi vuole ammazzare te, per sopravvivere: e quella notte il Calcio sopravvisse per far sopravvivere altre anime.

Questo è l’ingrato ruolo del Calcio, al quale è dato di incendiare animi e alleviar dolori, cercando di essere leggero per accompagnarci comunque nella profondità delle nostre emozioni.

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