Trent’anni. L’età in cui si diventa adulti, il lasso di tempo che ti fa acquisire coscienza che i costumi della società sono stravolti. Sono già passati, trent’anni, dall’inizio dell’avventura sportiva che più di tutte ha segnato la storia del nostro Paese.
Era l’8 giugno 1990 quando, a San Siro, rimesso a nuovo per l’occasione con tanto di copertura aerea e terzo anello che ne aumentava la capienza, aveva inizio la cerimonia di inaugurazione mondiale più chic e modaiola che finora si possa tenere a mente.
Io, in dirittura d’arrivo della Seconda Elementare e reduce da uno degli ultimi allenamenti della stagione, feci la doccia più veloce del solito, perché non stavo nella pelle: questo momento lo aspettavo da un anno, e gli preparavo la strada con l’album delle figurine che costrinsi a fare a tutti i miei compagni, cercando con gli occhi il Ciao, la sgangherata mascotte tricolore a mattoncini che costruivano un corpicino sbilenco cui si attaccava la testa-pallone, che campeggiava su ogni tipo di prodotto e, per l’occasione, veniva ri-editato in versione mondiale.
Sinceramente, non credo proprio di esser stato l’unico cui fu diagnosticata la malattia delle notti magiche: ricordo che i discorsi che sentivo in giro, quelli degli adulti, non erano poi così diversi da quelli che facevamo noi durante la ricreazione, sulla bellezza del nuovo stadio Delle Alpi o sul “Girone di ferro” delle isole, eppure, loro avevano trent’anni…
Già, trent’anni. Allora si stava bene, eccezion fatta per la paura dell’AIDS con annessa terrificante campagna pubblicitaria, per il resto la nostra penisola godeva di ottima salute, anche economica: la Olivetti, azienda leader della computeristica, sarebbe stata artefice del primo Mondiale interattivo, con quelle belle grafiche di foto scorrevoli che svelavano l’undici iniziale, un autentico fiore all’occhiello per quei tempi.
Quelli trascorsi ci hanno portato a nuove visioni, conoscenze, ritmi: adesso, oltre a non esserci più il Totocalcio, senza il quale l’elezione della mascotte non sarebbe potuta avvenire, non c’è più nemmeno il Calcio, nella sua accezione più sognante, quella che ti fa associare un giocatore a un tuo desiderio esistenziale, una maglietta a una stagione della tua vita, una formazione da mandare a memoria al desco familiare, una partita a un appuntamento con una ragazza.
Per contro quell’estate io la mando a menadito: Roger Milla era l’idea che la vita è imprevedibile, e che non esiste l’impossibile, perché da un giorno all’altro ti puoi svegliare e passare da vecchietto pensionato a eroe sul più grande palcoscenico dell’universo; le scintillanti magliette Adidas di Germania, Olanda, Colombia, URSS e quelle classiche di Inghilterra, Brasile e Uruguay erano l’oggetto del desiderio di un’estate che potevi accaparrarti semplicemente facendo incetta di merendine della Ferrero; l’Italia, la nostra di Italia di Azeglio Vicini, aveva una formazione che snocciolavamo a memoria, con la sorpresa finale di Totò (Schillaci, NdR) inserito a ultimo nei convocati, e che io e papà speravamo sempre, e ce lo dicevamo, a colazione come a cena, che sarebbe diventato protagonista.
Che dire poi delle partite, intense, spettacolari: a sette anni non potevo certo frequentare ragazze, ma quanti, più grandicelli di me, ricorderanno con più dolcezza la beffa di Caniggia, se poi avranno dato un bacio appassionato dopo i calci di rigore, in una tiepida notte di un’estate… Italiana.
Già, che colonna sonora, che ti porta dritto in una dimensione fiabesca. Del resto non potrebbe essere altrimenti: l’ha scritta Giorgio Moroder, non proprio l’ultimo arrivato, che fra i suoi indimenticati capolavori scrisse anche la musica di “Never ending story”, pellicola fantastica della storia infinita; e l’ha cantata Edoardo Bennato, colui che ha musicato tutto il curriculum vitae di chi ha capito che l’unico modo di prolungare la felicità e la spensieratezza è fermare il tempo.
Purtroppo a noi non è dato volare, e dobbiamo arrangiarci a convivere col trascorrere del tempo, ma possiamo far sì che la nostra memoria sia vivida e ci riporti a impregnarci di quelle emozioni. Con una nostalgia declinata non in modo melancolico a mo’ di saudade brasiliana, emersa negli Ottavi di Finale di Torino, quando i Verdeoro furono estromessi per mano dei rivali argentini; ma, radiosamente, nell’etimologia tedesca, non a caso la nazione che trionfò in quella kermesse, una Sehnsucht, ovverosia, una ricerca incessante e accorata di ciò che desideriamo.
Solo così, a distanza di trent’anni, saremo capaci di insegnare la via ai nuovi innamorati del gioco più bello del mondo e ricordarci di cosa abbiamo sempre bisogno noi grandi per non smarrire le coordinate della felicità più pura: seconda stella a destra, questo è il cammino…
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