Certamente l’ambiente nerazzurro vicino al nostro Direttore, Pierluigi Arcidiacono, è già a conoscenza della scomparsa della sua mamma (Vittoria Lucia Bigliotto), avvenuta sabato 22 Ottobre alle 19.55. Vi diamo di seguito le informazioni per un ultimo saluto e per il funerale. Desideriamo, però, ricordare mamma Vittoria con due brani tratti dal primo libro sull’Inter scritto da Pigi Arcidiacono: “VADE RETRO SATANA – Storie di una vita neroazzurra” (Proedi-Librificio, 2004). Si tratta de “Il divano di Peirò – 12 maggio 1965, Inter-Liverpool” uno dei paragrafi più conosciuti (pagina 28) e di “Grazie mamma!” (pagina 41). Desideriamo, inoltre, ricordare che durante il vittorioso Campionato 1970/1971 il fratello del Direttore, Cesare Arcidiacono, dalle gradinate dei Boys – Le Furie nerazzurre, sventolava un grande bandierone a quattro scacchi pazientemente cucito dalla loro mamma…
IL FUNERALE di mamma Vittoria sarà celebrato mercoledì pomeriggio alle ore 14.45 presso la Parrocchia della Resurrezione in via Longarone 5 a Milano.
La mamma del nostro Direttore riposa in pace presso l’obitorio del Pio Albergo Trivulzio che si trova dietro la Chiesa all’interno dell’ospedale. Si può visitare dalle 9 alle 12 e dalle 13.30 alle 16. Non portate fiori. Il Direttore esprime il desiderio che le offerte siano destinate all’associazione che si occupa dei bambini dei detenuti “Bambinisenzasbarre”, oppure, ad altra associazione benefica da voi conosciuta.
Il divano di Peirò – 12 maggio 1965, Inter-Liverpool
Oggi è venuta a trovarci Sarah, la sorellina di Ricky. Io e Nadia siamo ormai separati da molto tempo e lei, in questi anni, ha avuto altri tre figli: Sarah, Luca e Nicola. Tutti e tre, fortunatamente, sono sani: nonostante le inclinazioni infedeli e rossonere della mamma sono tifosi dell’Inter. Sarah indossa la maglia di Cannavaro e con Ricky scherza e gioca sul divano. Mia mamma li rimprovera ma senza tanta convinzione, non come quella volta, tanto tempo fa, che con forza si oppose perché volevano portarle via “il divano di Peirò”. Per capire quell’episodio, però, bisogna cercare di comprendere la filosofia di mia mamma, cosa che alla piccola Sarah è riuscito quasi subito.
“Quella signora anziana mi fa ridere”, disse un giorno la bambina. In effetti non aveva tutti i torti, perché “quella signora” inizia a parlare in modo normale ma poi finisce sempre la frase in uno strano linguaggio. Questo suo curioso modo di esprimersi le era servito anche quando si era recata per la prima e unica volta fuori dall’Europa, e con tanta paura aveva preso l’aereo. Doveva andare a trovare il figlio Cesarino che si era stabilito per qualche anno a Santo Domingo e aveva aperto una gelateria con il nome “Italianissima” – ma ogni domenica, più o meno alla stessa ora, chiamava in Italia e chiedeva: “Cosa ha fatto l’Inter?”. Anche a Santo Domingo, si diceva, quando la gente locale non la capiva (perché parlava solo italiano), lei per farsi intendere iniziava a dialogare in quel misterioso idioma. Per questo motivo sull’isola l’avevano soprannominata “la francese”. Mia mamma, che è l’anziana signora cui ci riferiamo, fa sempre così: prima parte del di-scorso in italiano e seconda parte in quello strano linguaggio: il milanese.
Ma ecco la storia del “divano di Peirò”. Un giorno mio padre aveva deciso di rinnovare un po’ l’arredamento. Era uno strano atteggiamento che andava molto di moda tra gli anni Sessanta e Settanta: si buttavano cose bellissime che col tempo sarebbero divenute di valore, per scegliere cose alla moda e apparentemente più pratiche, che col tempo (e nemmeno molto) si sarebbero rotte. L’anziana signora, che a quei tempi non era per nulla anziana, non voleva però assolutamente farsi portare via il divano. Continuava a dire che “Quel lì l’è el divan del Peirò”. Non si poteva cambiare tutto e tenere quel divano, e poi né noi bambini, né l’arredatore, né gli operai capivamo cosa significasse quella frase. Fatto sta che, dopo che mio padre aveva cercato per un po’ di convincerla, mia mamma, categoricamente dichiarò: “Insoma! Mì el divan del Peirò el sbati via no!”.
Per capire bene questa storia bisogna entrare ancora un po’ nell’intimo di mia madre. La mamma è solita affezionarsi a ogni più piccola cosa che gli ricordi un episodio caro. Poi, queste piccole cose, le dispone per tutta la casa, come in una specie di prezioso mosaico. Una volta aveva giocato insieme al nipotino Roberto (il figlio di mio fratello Cesare) con un piccolo pupazzo trovato in un ovetto di cioccolato. Questo pupazzetto aveva un biberon, e siccome eravamo nel periodo delle festività natalizie Robertino pensò che fosse Gesù bambino. Da quel giorno mia mamma tiene quel pupazzetto vicino a una statuetta della Madonna su uno scaffale in sala e per lei, quel pupazzetto col biberon, non solo rappresenta, ma è proprio Gesù da piccolo. Così è per decine di nastrini che tiene in una scatola d’argento sul comò, dei quali sa bene se sono del battesimo di un parente, del matrimonio di un amico o della comunione di un conoscente.
12 maggio 1965: semifinale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Per quella storica serata papà non ha trovato i biglietti per andare allo stadio, quindi ha invitato alcuni amici a casa per giocare a carte. La partita l’avrebbero ascoltata in differita alla radio. Ma poco prima dell’inizio dell’incontro la Rai dà la notizia della trasmissione in diretta. In tre si siedono sul divano e gli altri sulle sedie. All’andata era finita due a zero per gli inglesi: molto difficile ribaltare la sorte. Il portiere del Liverpool anticipa in uscita Peirò (siamo sull’1 a 0 per l’Inter), poi con la mano si mette a palleggiare prima del rinvio. Peirò si rialza, di soppiatto si avvicina al portiere e gli ruba lestamente la palla, infilandola senza pietà in rete. 2 a 0, palla al centro e si ricomincia daccapo. Soltanto che noi siamo col morale alle stelle e inoltre giochiamo in casa! Mentre Peirò esulta, però, papà è saltato verso l’alto e quando ricade pesantemente sul divano si sente un “crack”. Da quella sera io e mio fratello potevamo saltare dappertutto, anche sui muri, ma ci era vietato saltare sul divano, che da allora, riparato alla meglio, divenne per mia mamma “il divano di Peirò” e nessuno glielo tolse dalla testa.
Anche negli anni Sessanta c’erano i cori. Papà, persino molti anni dopo, fischiettava spesso la canzone inglese It’s a long way to Tipperery e ogni tanto si lasciava andare a cantare con le parole dei tifosi neroazzurri nei giorni successivi a quella clamorosa semifinale contro il Liverpool: Tornate a casa! / O liver-polli! / Tornate a casa! / Good bye!
Grazie mamma!
La prima volta che sono entrato nella sede dell’Internazionale avevo dieci anni. Mi accompagnò mia mamma e a condurci nei locali di via Dante al numero 7 fu mio fratello Cesare. Chiesi alla mamma se potevo avere una cartolina di un giocatore e l’impiegato volle sapere quale giocatore desideravo, quale era il mio preferito. Non avevo dubbi: Facchetti. L’impiegato iniziò a sfogliare tutte le cartoline e a metterle sul bancone a una a una, e così mi diede tutta la squadra, comprese le riserve. Mio fratello e mia mamma sgranarono gli occhi, ma per differenti motivi. Cesare era più grande ma, in fondo, aveva solo tredici anni e forse in quel momento provava un po’ (anzi molta) gelosia. Lui possedeva già alcune di quelle cartoline, ma non la serie completa. Mia mamma, invece, era di certo preoccupata perché pensava di doverle pagare tutte. Io non so se si trattò di una gentilezza dell’impiegato nei confronti di un bambino o più probabilmente di una galanteria rivolta alla bellezza della mamma, oppure se le cartoline venivano regalate a tutti. In ogni caso, ora possedevo un tesoro che nessun mio amico poteva avere, nemmeno mio fratello che andava già allo stadio da solo. I giocatori, fatta eccezione per l’ala destra Jair, di nazionalità brasiliana, avevano cognomi ruspanti e non esotici come si usa adesso: Vieri, Bellugi, Facchetti, Bedin, Giubertoni, Burgnich, Bertini, Boninsegna, Mazzola, Corso. Ma anche: Bordon, Achilli, Cella, Fabbian, Frustalupi, Oriali, Pellizzaro e Reif. Per non so quale regola di giustizia, su suggerimento di mia mamma dovetti donare alcune cartoline a Cesare. Lui, ovviamente, aveva contribuito a formare il pensiero secondo cui tale gesto era giusto. Fui comunque contento di privarmi delle cartoline di tre giocatori che, in ogni caso, sarebbero rimaste nella mia stanza.